Appunti sull'allevamento dei bambini (2)


1.

Con la nascita del bambino s’avvia l’esperienza dell’allevamento che, nel nostro mondo, s’imbatte in una serie di difficoltà che vanno analizzate con cura e che sono di ordine psicologico, culturale e sociale.

Un primo problema, di ordine assolutamente generale, riguarda le aspettative genitoriali che sono univoche. I genitori pensano che il contatto affettivo, da parte loro e da parte del bambino, debba stabilirsi immediatamente, e ritengono che, se questo accade, lo sviluppo del figlio debba avvenire in maniera lineare. Accolto con amore, curato, nutrito, protetto, il bambino insomma non dovrebbe avere né dare problemi.

Queste aspettative da spot sono poco realistiche. La sintonizzazione comunicativa, per cui i messaggi del bambino vengono decodificati empaticamente, impiega almeno alcune settimane a realizzarsi. In questo periodo, per quanto il genitore possa voler bene al figlio, l’affetto è riferito al ruolo: in altri termini, non ha una dimensione interpersonale. E’ normale pertanto che, in alcuni momenti, il genitore possa avvertire un sentimento di estraneità e vivere il figlio come un estraneo.

In secondo luogo, il comportamento neonatale, nella misura in cui è programmato istintualmente, ha degli aspetti comuni. Cionondimeno i bambini sono diversi geneticamente. Alcuni sono più quieti, altri meno; alcuni si sintonizzano rapidamente, altri tardivamente; alcuni sono vivaci, altri più pigri; ecc.

Nei casi in cui il comportamento del neonato non corrisponde alle aspettative genitoriali, si crea facilmente uno stato d’allarme. In passato, l’ansia delle giovani coppie trovava come punti di riferimento le famiglie originarie. Oggi, questo punto di riferimento o non esiste (in conseguenza della nuclearizzazione della famiglia) o, se esiste, spesso non è utilizzato dai genitori sulla base o di un cattivo rapporto interpersonale o della convinzione che i nonni tendano a "viziare" o a influenzare negativamente i nipoti.

In conseguenza di questo, il punto di riferimento diventa il pediatra, al quale si attribuiscono rilevanti competenze specialistiche di ordine medico e psicologico. A riguardo, sono costretto a dire una verità che potrà risultare sgradevole. La formazione dei pediatri italiani, come per altro di gran parte dei medici, è di tipo organicistico. Essi insomma conoscono abbastanza bene il corpo del bambino. Per quanto riguarda le loro competenze di ordine psicologico il discorso è diverso. Nel loro curriculum di studi, quest’aspetto è ritenuto del tutto secondario, quando non addirittura ignorato. Tranne rari casi, riconducibili ad una sensibilità di ordine personale o ad una formazione extrauniversitaria, le loro conoscenze inerenti la neurobiologia, la psicologia evolutiva, la psicologia relazionale sono limitatissime. Investiti dai genitori di richieste di ogni genere, essi rispondono puntualmente, ma spesso si tratta di opinioni personali, quando non addirittura di luoghi comuni.

Adduco un esempio di tale incompetenza, che verrà poi arricchito successivamente.

Sia da un punto di vista etologico che neuropsicologico, è ormai noto che, tra i bisogni primari, nel neonato si dà anche il bisogno di contatto che, nei primi due-tre mesi, si esprime spesso sotto forma di aggrappamento. I genitori hanno una certa difficoltà a recepire questo bisogno, perché uno dei loro obiettivi primari, conseguenti all’organizzazione della loro vita, è di promuovere l’autonomia precoce del bambino e di evitare che egli si "vizi", pretendendo di stare sempre in braccio. Fermo restando che i bambini hanno tempi diversi per raggiungere tale obiettivo, è indubbio che soddisfare ampiamente il bisogno di aggrappamento nei primi mesi è il modo migliore per raggiungerlo, mentre frustrarlo può indurne la cronicizzazione. Perché dunque i pediatri consigliano di non "viziare" i neonati e di abituarli il più presto possibile a dormire da soli?

E’ ovvio: ignorando la psicologia evolutiva, essi partecipano di una cultura che enfatizza l’autonomia individuale. Essi dimenticano che, per raggiungere tale fine, la natura ha predisposto per l’essere umano un’evoluzione che dura un quarto della vita.

2.

I due primi grandi problemi che si pongono ai genitori riguardano la nutrizione e il sonno.

Dopo la stagione degli anni ’70, nel corso della quale la pratica dell’allattamento artificiale si è diffusa a dismisura in conseguenza sia di una rivendicazione di libertà delle giovani madri sia dell’esigenza di coinvolgere i partner maschili nella pratica dell’allevamento, si è verificata una lenta restaurazione ad opera della medicina. I pediatri, infatti, hanno "scoperto" che nessun latte artificiale ha il potere nutritivo di quello materno, che tra l’altro contiene anche gli anticorpi necessari a sopperire all’immaturità del sistema immunitario del neonato. In conseguenza di questa "scoperta", l’allattamento naturale viene proposto come un obbligo pressoché assoluto in tutti i casi in cui la madre sia in grado di praticarlo, e lo svezzamento viene avviato non prima del sesto mese.

In termini biologici, il discorso è ineccepibile. Il problema è che esso non tiene in alcun conto la capacità psicologica della madre di sottoporsi allo stress dell’allattamento. Questo problema si pone in termini drammatici quando la madre si ritrova ad allevare il bambino praticamente da sola senza una rete di supporto parentale - circostanza che, data la nuclearizzazione della famiglia, sta diventando sempre più frequente. In questo caso, la vita della madre viene ad essere completamente assorbita dai compiti dell’allevamento e dalla cura della casa. Ogni tre ore di giorno allatta. Quando il figlio dorme, deve accudire la casa, lavare i panni, stirare, far da mangiare. E’ un ciclo continuo dalla mattina alla sera. Di notte, poi, nella migliore delle ipotesi, almeno una volta il piccolo si sveglia. La madre, che ha l’orecchio sintonizzato dalla natura (è una verità scientifica: la soglia uditiva della madre nei primi mesi di vita è selettivamente bassa per i rumori prodotti dal figlio), lo sente prima del padre e interviene. A che serve svegliare il partner e sacrificarsi in due?

Un’esperienza del genere, quale che sia la condizione psicologica di base della madre, produce facilmente un nervosismo, un’irritabilità, un’insofferenza che si trasmette quasi inevitabilmente al bambino.

La psicologia del neonato è ancora misteriosa per molti aspetti, e forse destinata a rimanere tale. Tra le poche certezze, ce n’è una di assoluto rilievo. La percezione che il bambino ha del mondo esterno è, almeno fino al secondo mese, indistinta ed empatica. Egli vive presumibilmente l’ambiente come un campo nel quale non si danno oggetti distinti ma solo stimoli sensitivo-sensoriali (soprattutto tattili, termici e dolorifici, gustativi, uditivi) e flussi emozionali che egli registra.

Quello che accade allorché il campo è attraversato dal nervosismo e dall’insofferenza materna è intuibile: il bambino diventa irrequieto, lamentoso, piagnucoloso, al limite sviluppa una certa tendenza a rifiutare il latte.

Molti problemi legati al comportamento alimentare, che si vanno diffondendo a macchia d’olio, e che talora persistono a lungo, obbligando i genitori, anche quando i figli sono grandicelli, ad imboccarli e ad estenuarsi per ore, riconoscono la loro matrice nel fatto che l’allattamento naturale, ottimale biologicamente, produce nella madre uno stato di stress che il neonato avverte.

Penso che, a questo riguardo, i genitori si debbano dissociare da una prescrizione che è psicologicamente nociva. L’allattamento misto, con una o due poppate di latte artificiale fin dall’inizio, che poi possono aumentare di numero fino all’epoca dello svezzamento, dovrebbe essere privilegiato. Esso tra l’altro permette al padre di assumere un ruolo attivo: egli può provvedere ad allattare il figlio al mattino e di sera, concedendo un po’ di respiro alla madre.

La proposta è eretica solo in rapporto ad un orientamento, prevalente tra i pediatri, che medicalizza l’allevamento del bambino. Mi è stato riferito da una giovane madre, che aveva consultato una pediatra ponendole questo problema, che la risposta è stata severa. La pediatra ha detto che essa doveva anzitutto interessarsi alla salute del bambino. Avrebbe dovuto aggiungere: alla salute del corpo del bambino, dato che molti neonati, che poppano con il latte l’ansia della madre, manifestano sempre più spesso disturbi alimentari che non esistono presso nessun’altra specie animale.

3.

Ancora più frequenti sono i disturbi del sonno, la cui incidenza sulla "tenuta" dei genitori è ovvia. Alcuni sistemi familiari sono devastati dal fatto che il neonato si sveglia varie volte nel corso della notte. Se questa difficoltà di un sonno continuo si perpetua, i genitori possono arrivare all’esaurimento e a pensare che l’aver messo al mondo un figlio è stata una pessima decisione.

Il problema dell’acquisizione del ritmo sonno-veglia va considerato sotto due diversi profili. Nonostante i genitori si augurino che il loro figlio acquisisca tale ritmo fin dai primi giorni, occorre riconoscere che una possibilità del genere è oltremodo remota. Intanto, anche non considerando le interazioni con l’ambiente, è noto che la diversità genetica incide anche a riguardo. Ci sono neonati predisposti ad acquisire quel ritmo precocemente e neonati più tardivi. Nessuno sa con precisione quale sia lo spettro di tale predisposizione, ma non si va lontano dal vero pensando che esso oscilli tra uno e sei mesi.

Il cervello è programmato per acquisire il ritmo veglia-sonno, ma si tratta di una programmazione generica. La natura non poteva certo prevedere che l’uomo si propagasse ai quattro angoli del pianeta, e provvedere i vari cervelli di programmi riferiti ad un ambiente specifico. Come si realizza dunque tale programmazione?

Una risposta si ricava deduttivamente dagli studi degli antropologici, che hanno dimostrato che i disturbi del sonno neonatale sono infinitamente meno diffusi presso le popolazioni che vivono a contatto con la natura. Questo solo dato consente di capire immediatamente che gli stimoli che consentono di acquisire il ritmo sonno-veglia sono di ordine ambientale: sono, in breve, gli stimoli luminosi. E’ l’uovo di Colombo, ma come tutte le verità inerenti l’uomo occorre fare i conti con le abitudini culturali.

Gli adulti nel nostro mondo sono adattati al ritmo sonno-veglia (ponendo tra parentesi il tasso crescente di persone che, per lo stress, perdono quest’adattamento) sulla base dell’orologio e delle esigenze di vita. Essi pretendono, o desiderano, che il neonato "capisca" il più presto possibile che deve dormire e lasciarli dormire. Il problema è che i neonati vivono quasi sempre in ambienti artificiali, quelli domestici. Certo, essi vengono quasi ritualmente portati a spasso in un giardino al mattino. Ma quest’abitudine dipende dal tempo che fa, e d’inverno spesso è impossibile da realizzare. In casa poi, essi vivono spesso, particolarmente dopo il crepuscolo, in un ambiente artificialmente illuminato.

Si danno insomma tutti gli elementi che possono compromettere un’adeguata esposizione agli stimoli luminosi naturali. Certo, quando si tratta di andare a letto, le luci artificiali vengono abbassate o spente. Ma questo realizza spesso un effetto paradossale: più o meno lo stesso che può capitare agli adulti in occasione di un’eclissi solare totale. Il passaggio dalla luce artificiale al buio può più spesso rendere i bambini irrequieti che non favorirne il sonno.

Il discorso sembra banale, ma non lo è affatto. Posto che lo si accetti, che cosa si può fare? Poco purtroppo nell’attuale contesto. Ci si può impegnare nei limiti del possibile a portare i neonati fuori di casa, esponendoli alla luce, ogni giorno. Sarebbe anche importante portarli a spasso di sera. Molti genitori acquisiscono coscienza del fatto che, quando capita loro di andare fuori la sera col bebé in visita agli amici o ai parenti, questi dorme saporitamente nel tragitto di rientro a casa e si sveglia regolarmente quando si ritrova in essa. La natura parla chiaro: siamo noi un po’ sordi a tenere conto dei suoi messaggi.

En passant, devo riferire una riflessione che ho in mente da anni e mi sembra pertinente. La legge edilizia impone ormai, da tempo, ai costruttori di dotare le abitazioni di un garage condominiale. Non sarebbe affatto fuori luogo farne un’altra che li obblighi a dotarle anche di un giardino condominiale di una certa ampiezza. Questo consentirebbe alle giovani madri di alleviare l’incidenza negativa sullo sviluppo neonatale dell’ambiente domestico.

4.

Il discorso sul sonno può essere anche generalizzato per pervenire a conclusioni più radicali. Tutti i genitori sanno l’effetto magico che ha sui neonati e sui bambini il contatto con la natura: il verde, l’aria, l’acqua. Ciascuno di noi può sperimentare che questa magia si realizza anche a livello adulto. L’ambiente naturale distende, rinvigorisce, euforizza.

Tutto ciò non è sorprendente, se si tiene conto che l’umanità è vissuta per il 99% della sua storia a contatto con la natura. La separazione intervenuta in seguito all’urbanizzazione ha posto in luce le straordinarie capacità adattive della specie umana. Per quanto straordinarie, però, tali capacità non sono infinite. Lo stress epidemico che pervade il nostro mondo ha cause molteplici: tra questa però non minimizzerei affatto il vivere in cattività, in contesti urbani inquinati e poveri di verde, in abitazioni rigidamente segregative, ecc.

I neonati, ovviamente, non soffrono di stress, se non di riflesso rispetto a quello genitoriale. E’ probabile però che, eredi di un’antichissima tradizione, essi risentano della separazione dalla natura più degli adulti. Anche se non esistono studi a riguardo, non è affatto azzardato ammettere che il loro sistema nervoso comporti un’appetizione per gli stimoli naturali - olfattivi, termici e tattili in particolare, - molto più sviluppata che negli adulti, che sono assuefatti ad un ambiente artificiale.

Ciò significa, né più né meno, che nutrirli, lavarli, curarli, vezzeggiarli è importante, ma non meno importante è riconoscere quell’appetizione e, nei limiti in cui è possibile, soddisfarla.

Certo, fare appello alla volontà dei genitori, nel nostro sistema, è riduttivo. Se essi si affrancano dalla dipendenza dai pediatri che, dei problemi di cui s’è parlato, sanno ben poco, possono rimediare ad una serie di errori i cui effetti possono essere catastrofici. E’ chiaro però che l’allevamento dei bambini, se viene considerato importante non solo per scongiurare il rischio di un invecchiamento demografico, ma anche e soprattutto per avviare un processo evolutivo su basi meno precarie di quanto accade attualmente, richiede una riprogrammazione sociale. Affidarsi alla buona volontà dei genitori lascia il tempo che trova, stante il livello di stress che essi raggiungono dedicandosi anche solo all’allevamento di un bebé.

I cambiamenti ambientali di cui ho parlato — inerenti la necessità di un giardino condominiale per ogni nuova abitazione — rientrano nell’ambito di questa riprogrammazione. I palazzinari non saranno contenti di dover acquistare aree fabbricabili per adibirle in parte a giardini. Ma i loro interessi privati dovrebbero essere subordinati agli interessi comuni.

C’è qualcos’altro da fare nell’immediato. Alcuni anni fa, un Assessore al Comune di Roma, sensibile per esperienza personale al problema, propose di istituire un servizio sociale di assistenza domiciliare alle giovani madri: un servizio insomma di baby-sitteraggio. La proposta giunse fino alla programmazione di un corso regionale il cui programma era di grande interesse perché spaziava dalla nutrizione alla psicologia evolutiva. La cosa — che io sappia — è finita lì. Il corso non si è mai realizzato.

In vari articoli, ho fatto presente che la depressione delle giovani madri, sulle cui spalle pesa una responsabilità enorme non adeguatamente supportata né dai pediatri né dai servizi sociali (i consultori materno-infantili), è un fenomeno grave e crescente. Un servizio sociale di aiuto domestico nel primo anno di allevamento, che è di straordinaria importanza, svolto da persone competenti e psicologicamente sensibili, sarebbe una rivoluzione di non poco conto. Le baby-sitter comunali potrebbero aiutare anche le madri ad esprimere un disagio di cui esse si vergognano, ritenendolo espressione di inadeguatezza, scarso spirito materno, ecc.